martedì 28 ottobre 2014

Giorgia Walsh, "Psicoanalisi in rosso": recensione di Pietro Barbetta su Doppiozero (http://www.doppiozero.com/rubriche/336/202010/psicoanalisi-rosso-una-fiction)



«Dovreste fare una di quelle operazioni di controllo delle pulsioni distruttive che prescrivete ai vostri pazienti, dovreste tenere a bada l’ansia che la questione genera in voi e che evidentemente vi impedisce di capire che quando (non se, quando) verrà il momento in cui dovrete rendere conto all’opinione pubblica degli abusi e soprattutto del rifiuto sistematico di affrontarli e dunque di arginarli, quando non potrete più eludere le domande, perché usciranno dal segreto delle caselle di posta elettronica e finiranno su libri e giornali, quando sarete costretti a rispondere, civilmente, democraticamente costretti, punti da critiche “continenti”, sì, ma radicali, documentate e argomentate, quando dovrete, cioè, finalmente, prendere pubblicamente posizione, sarà per voi una pessima pubblicità dover dire di essere stati testimoni silenziosi, inerti, quando non maldisposti verso le vittime, soprattutto verso le vittime loquaci e determinate, dover dire “sapevamo e abbiamo fatto finta di niente”, “sapevamo e abbiamo fatto in modo che chi sapeva non potesse raccontare a chi non sapeva”. I non pochi fra voi che amano sopra ogni cosa il loro lavoro, che non vogliono vedersi ingiustamente infangati dalle malefatte di colleghi indegni dovrebbero mettere da parte la vergogna che sempre si riversa sugli innocenti e capire che è contraddittorio anteporre l’amore per il proprio lavoro di terapeuti alla tutela dei pazienti e che gli abusi sommersi fanno più rumore di quelli fatti emergere e contrastati, scavano nella fiducia pubblica gallerie molto più profonde (difficile, poi, impedire i crolli, evitare che la cura faccia più paura del male, che ci si rivolga ad altre cure, meno rischiose).
L’anonima è ancora lì a aspettare altre risposte, ma non ha più fiducia che arriveranno.

[...]

Sarebbe dannoso per le vittime di abusi, devono aver pensato quelli che stanno sulla macchina, sapere che anche psicologi, psicoterapeuti, psichiatri e psicoanalisti possono rientrare, come tutti, nella categoria degli abusatori. Assurdo instillare diffidenza in chi ha bisogno di ritrovare fiducia, assurdo macchiare di sospetti proprio la categoria a cui è affidato il compito di curare, di rimediare. Tutte ottime ragioni, ma il prezzo di questa censura è alto ed è rischioso costruire, nella fantasia collettiva, una categoria immacolata. A lungo la mia fiducia senza domande mi ha impedito di chiedermi se sia democratica, libera una società che affida acriticamente la custodia della salute pubblica a curatori incustoditi, se sia onesta una società che per lo più riduce la violenza alle botte domestiche e agli stupri nei parchi. Finché la violenza non mi ha toccato, finché non l’ho sentita addosso, liscia come le candele profumate che hanno impregnato per sempre i miei capelli, non mi è venuto in mente che forse a qualcuno fa comodo l’immagine livida della violenza o, il che è lo stesso, che forse a qualcuno non fa comodo la sua versione profumata. A lungo, finché le vittime sono state quelle dei giornali, da compatire distrattamente, il tempo di un trafiletto, o quelle senza nome delle statistiche, da dimenticare in fretta con un brivido, non mi sono fatta la domanda più semplice: che cos’è un abuso? Come ce lo figuriamo davvero, tra noi e noi, nel silenzio della coscienza, sotto il brusio del politicamente corretto? Non è la malattia sommamente colpevole e solitaria, quella che più di ogni altra aggredisce in un buio, della coscienza e della comunità, che rende colpevole e vittima ugualmente neri? Non è allora più salutare cambiare la compassione piena di silenziosi sospetti degli interlocutori più candidi con l’aggressività esplicita di quelli più infami? Non sono gli uni e gli altri accomunati dalla solita stupida accusa di aver confuso vendetta e giustizia, di essere passati dalla parte del torto per il solo fatto di essersi rifiutati di rimanere negli angusti margini di ragione graziosamente concessi? Non è stata, in fondo, la mia una storia di variegata, polifonica violenza? E che cos’è la violenza? Potremmo pensarla come una legge di natura che si impone a tutti senza curarsi di nessuno. Ma ci verrebbe poi la tentazione di figurarcela indifferente e, scambiando l’indifferenza per arroganza e astuzia, sfogheremmo la nostra disperazione combattendola strenuamente, fino a farne la nostra nemica più intima, un’inseparabile compagna di vita. E allora forse è più sano, meno tossico pensare che non abbia più senso del vento, che va verso mezzogiorno e si volta verso settentrione, che gira, e girando procede, e sopra i suoi giri sempre ritorna, e nessun senso più dei fiumi, che vanno verso il mare e al mare continueranno ad andare, senza poterlo riempire, senza tregua.»

(Giorgia Walsh, Psicoanalisi in rosso, Sedizioni, 2014, pp. 82-83 e 103-105)

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